KARL MARX E IL PLUSVALORE

 

Karl Marx

Karl Marx eredita, rielaborando la teoria del valore, due classici, secondo cui la fonte ultima del valore è il lavoro, e nello stesso tempo opera una rottura nei loro confronti. 

Marx tuttavia si distacca dai classici perché rifiuta una rappresentazione del modo di produzione capitalistico come qualcosa di storico, naturale ed eterno, sostenendo invece l'idea secondo cui la società capitalistica non è che una tappa dello sviluppo storico dell'umanità. Respinge inoltre la definizione del capitale come insieme dei mezzi di produzione, ma lo considera come un qualcosa di storicamente determinato, avente un carattere sociale specifico e non dato in natura una volta per tutteIl capitalismo è dunque per Marx un modo di produzione transitorio, caratterizzato dalla separazione dei mezzi di produzione dai lavoratori e dalla massima diffusione della produzione mercantile. In tale ottica il valore non è più una proprietà "naturale", ma risulta connesso alle determinazioni specifiche, storiche di tale modo di produzione.



La teoria del plusvalore

Semplificando, il fulcro di questa teoria è che il salario non costituisce il corrispettivo della ricchezza che il lavoratore produce con la sua attività, ma solo la cifra con cui il capitalista compra la sua forza-lavoro, ossia la sua disponibilità a lavorare. Il plusvalore designa quel "sovrappiù" di valore che il lavoratore è in grado di realizzare, in un tempo determinato grazie alla sua attività, ma di cui si è sistematicamente defraudato dal capitalista. 


Il saggio di profitto e la sua caduta

L'accumulazione del plusvalore è il presupposto per la crescita dell'economia capitalista, ma a lungo andare è, secondo Marx, il meccanismo occulto che ne decreterà il crollo inesorabile. Proseguendo nella sua analisi, infatti, Marx sostiene che l'effettiva percentuale di guadagno realizzata dall'imprenditore, che egli denomina saggio di profitto, scaturisce dal rapporto tra il plusvalore stesso e le spese necessarie per la produzione, cioè il capitale variabile, ossia il costo dei salari, sommato al capitale costante, ovvero al denaro investito nell'acquisto di materie prime, macchinari e altre risorse inanimate. Il progressivo incremento della meccanizzazione, a cui si assiste nella società industriale, fa crescere la quota del capitale costante rispetto a quella del capitale variabile. Ciò può apparire, a prima vista, un fattore di guadagno, giacché l'impiego delle macchine permette di ridurre la manodopera e di tagliare così le spese sui salari. 

Ma il risparmio sul capitale variabile è in realtà un vero e proprio boomerang: esso riduce infatti il plusvalore - fondamento stesso del profitto - perché questo può scaturire solo dal lavoratore e non dalla macchina. A ciò si aggiunge il fatto che l'impoverimento della classe lavoratrice, minacciata dalla disoccupazione, restringe il numero dei potenziali acquirenti delle merci prodotte, rendendone così impossibile lo smaltimento e vanificando di fatto l'aumento della produttività che la meccanizzazione ha generato. 

Il risultato, secondo Marx, è una caduta inesorabile del saggio di profitto, drammaticamente in contrasto con l'incremento di ricchezza che il sistema capitalistico persegue, e destinata, a lungo andare, a fare precipitare quest'ultimo in una crisi senza ritorno.


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