UGUAGLIANZA E DIVERSITÀ

Il valore dell'uguaglianza 


Per molto tempo l'uguaglianza ha costituito la bandiera sotto la quale gli uomini hanno combattuto alla ricerca di un mondo diverso e migliore. Scaturito tra il XVII e il XVIII secolo dalle riflessioni degli illuministi, il valore dell'uguaglianza è invocato con particolare passione nelle battaglie della borghesia rivoluzionaria, in opposizione ai privilegi di classe della nobiltà e del clero (una delle parole chiave della Rivoluzione francese, insieme a "libertà" e "fraternità", è proprio "uguaglianza", égalité).
Da lì è poi confluito nelle costituzioni dei moderni Stati liberali, come garanzia di giustizia e di democrazia: «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» recita, ad esempio, l'articolo 3 della nostra Costituzione. In questo senso l'idea di uguaglianza è stata impugnata per combattere le discriminazioni attuate a danno dei soggetti sociali più deboli.
L'uguaglianza può essere intesa in due modi principali:
  1. come una prerogativa originaria da tutelare, cioè come uguaglianza formale;
  2. come una condizione da promuovere concretamente, cioè come uguaglianza sostanziale.
In entrambi i casi, comunque, si fa riferimento a una stessa accezione del termine: quella di una "identica posizione" degli individui nei confronti della legge, capace di assicurare loro le fondamentali libertà civili e politiche, e sostanzialmente "indifferente" rispetto alle diversità fisiche, sociali, psicologiche e culturali che distinguono una persona dall'altra. Il naturale termine di riferimento dell'uguaglianza è dunque lo Stato, in quanto detentore della sovranità e dispensatore di "uguali" diritti e doveri a tutti i cittadini, che risultano così titolari delle stesse prerogative nei suoi confronti.



Il valore della diversità 

L'idea di uguaglianza ha mostrato però ben presto la sua problematicità. Infatti, se è vero che i cittadini sono tutti uguali dal punto di vista di ciò che lo Stato richiede e offre loro, è anche vero che sono diverse le loro esigenze, e quindi le loro richieste nei confronti dello Stato stesso.
Storicamente, il primo ambito in cui emerse questa "diversità" è quello della professione di fede, che fin dal Seicento fu causa di sanguinosi conflitti. Nell'Europa dilaniata dalle guerre di religione, vincolata dal principio del cuius regio eius religio (in virtù del quale i sudditi erano tenuti a professare lo stesso credo dei loro sovrani), da più parti si avvertì l'esigenza di tutelare la varietà delle confessioni e delle forme di culto, anche di quelle socialmente minoritarie.
Lo strumento teorico a cui venne affidato il riconoscimento di questa diversità fu la nozione di tolleranza, teorizzata tra il XVII e il XVIII secolo da diversi intellettuali. Tra questi, il filosofo inglese John Locke (1632-1706), nel Saggio sulla tolleranza (1667) e più ancora nella Lettera sulla tolleranza (1689), affermò che, nel disciplinare la vita sociale, la legge dello Stato deve arrestarsi di fronte a quelle sfere di pensiero e di attività in cui ogni persona può far valere le proprie preferenze e convinzioni: tali sono le decisioni della vita privata , ma anche le opinioni filosofiche e le pratiche religiose. In altre parole, ogni persona deve poter scegliere liberamente in quale Dio credere e in quali forme esercitare il proprio culto, purché naturalmente le sue credenze e le sue pratiche non si traducano in comportamenti pericolosi per la comunità
Lungi dall'incrinarlo, l'appello alla tolleranza religiosa trova un'agevole collocazione proprio all'interno del principio di uguaglianza: esso esprime infatti l'uguale posizione, nei confronti della legge, di ogni forma di culto e degli individui che lo praticano. Tuttavia, nel momento in cui stigmatizzava la pretesa di ogni credo di porsi come unico e indiscusso depositario della verità, esso suggeriva non solo l'esistenza di molte forme tra loro diverse e irriducibili l'una all'altra, in cui un individuo poteva vivere autenticamente la propria esperienza religiosa, ma anche che tale diversità, anziché essere un fattore negativo o perturbante, poteva trasformarsi
in strumento di confronto e di crescita.

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