HANNAH ARENDT


Hannah Arendt

Per la comprensione del fenomeno totalitario è unanimemente ritenuto fondamentale il saggio intitolato "Le origini del totalitarismo", scritto dalla filosofa tedesca Hannah Arendt (1906-1975) nel 1951. Convinta che i casi di dominio totalitario pienamente realizzato siano quelli della Germania nazista dopo il 1938 e dell'Unione Sovietica stalinista dopo il 1930 (mentre il regime fascista italiano rappresenterebbe una forma di pre-totalitarismo), la Arendt individua i seguenti tratti distintivi dei regimi totalitari:



1. La  presenza di un capo che svolge il ruolo di guida carismatica delle masse e che, come tale, è insostituibile. La sua dinamica volontà è legge suprema, vale a dire che gli eventuali improvvisi cambiamenti di linea politica da lui imposti non devono stupire. La sua parola, d'altronde, è considerata infallibile, anche se non necessariamente veridica: le parole del capo istituiscono una situazione, non la descrivono; 

2. contrariamente al despota o al dittatore, il capo assume su di sé la responsabilità delle azioni compiute dai subalterni;  

3. assolutezza della leadership: il capo non può essere un primus inter pares, ovvero un individuo che guida un gruppo di persone al suo stesso livello, ma deve essere un superiore senza alcun vincolo (in latino ab-solutus, "sciolto"), in quanto non può incontrare ostacoli nella realizzazione dei suoi disegni; 

4. l'eventuale confusione nella gerarchia di potere dei suoi sottoposti contribuisce a garantirgli un dominio incontrastato;

5. appoggio delle masse e fanatismo: il popolo nutre una fedeltà incondizionata e illimitata nei confronti del capo, le cui mete sono "idealisticamente" preferite al perseguimento degli interessi personali con il controllo di ogni aspetto della vita degli individui;

6. nuova (distorta) concezione della realtà: il capo non basa le proprie decisioni su un esame realistico dei fatti, in quanto disprezza il calcolo delle conseguenze immediate delle proprie scelte; è incurante degli autentici interessi nazionali, ai quali antepone il perseguimento di fini anche irrealistici, ma comunque funzionali alla trasformazione delle masse in strumenti di attuazione dell'ideologia totalitaria; 

7. uso sistematico della propaganda, facendo ricorso al terrore: tutti devono sentirsi costantemente in pericolo di vita, sia nel caso in cui scelgano di opporsi al regime, sia nel caso in cui appartengano alle categorie che il capo considera "nemiche" (le classi sociali "in via di estinzione" o "decadenti" per lo stalinismo, che indicava con queste espressioni i borghesi e gli intellettuali non allineati al regime; le persone "inadatte alla vita" per il nazismo, che definiva così i soggetti malati, "imperfetti", o semplicemente non appartenenti alla razza ariana, considerata superiore);

8. riferimento continuo a un'ideologia per la quale il regime totalitario è mero strumento di attuazione di un processo ineluttabile (di tipo storico, come nel caso dell'ideologia stalinista, tesa all'avvento della dittatura del proletariato; oppure di tipo biologico, come nel caso dell'ideologia nazista, tesa alla selezione razziale).


Campi di concentramento

Una tragica costante dei totalitarismi, a cui non si può non fare cenno, è il ricorso ai "campi di concentramento". Con l'espressione "campo di concentramento" si indica una struttura carceraria perlopiù costruita all'aperto, in luoghi isolati, composta di grandi baracche (dormitori, refettori, laboratori) e recintata con alti reticolati di filo spinato, che veniva utilizzata dai regimi totalitari per la detenzione non solo dei prigionieri di guerra, ma anche di tutti quegli individui che, a vario titolo, erano considerati pericolosi per la stabilita sociale. Nota anche come "deportazione", termine che allude a un allontanamento forzato, a una sorta di esilio, tale pratica era già nota alla Russia zarista, che vi faceva ricorso per i delinquenti comuni o politici: il totalitarismo la trasformò però in una pratica di massa, che colpiva in modo arbitrario e spesso casuale qualunque cittadino, in quanto appartenente a gruppi considerati ostili, o semplicemente in quanto accusato, talvolta senza alcun fondamento, di essere "nemico" dello Stato.

Nei campi di concentramento sovietici, più conosciuti come "gulag" (sigla dell'ufficio politico che gestiva le deportazioni), i prigionieri erano crudelmente sfruttati per lavori che spesso non rispondevano neppure a uno scopo concreto; tuttavia questi luoghi non erano organizzati come "fabbriche di morte", perché da un gulag era possibile uscire vivi, perfino dopo molti anni di detenzione.

Non altrettanto può dirsi dei campi di lavoro nazisti, più correttamente indicati come "campi di sterminio", perché i prigionieri (deportati politici, criminali, omosessuali, testimoni di Geova, zingari ed ebrei) non solo venivano di fatto ridotti in schiavitù, ma attendevano senza speranza di essere "soppressi", in base al folle proposito, formulato in nome di un'aberrante ideologia e organizzato con precisione scientifica, di eliminare tutti gli individui che non rispondessero ai criteri della purezza razziale ariana. 

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